AI

Ai qui sta per preposizione articolata, cioè preposizione semplice -a- più articolo determinativo -i-.
Ai, appunto. Talvolta, ma raramente, se pronunciata omofona ma con particolare enfasi esclamativa, ai sta per l’interiezione dolente ahi!, nella quale la muta acca ne trasforma il significato, da preposizione a preoccupazione. Sempre troppe.

Qui è così, perché coltivare la lingua nell’ortografia dà sempre buoni racconti, e perché la grammatica, come la matematica, è pur sempre un’opinione. La più corretta.
E se avere un’opinione, che non sia un copione, è oggi già, di per sé, un esercizio irto di perigli, saper scrivere capolavori rimane un privilegio di pochi. Per noi, cioè per tutti gli altri, resta appunto solo la grammatica, cioè lo scrivere correttamente.

Siamo in quel qualcosa del tipo: “non so cosa dire, ma so come scriverlo”, che è un po’ un refresh di quel noto “don’t know what I want, but I know how to get it”, del gruppo punk britannico Sex Pistols.
Ora, qui di pistole nemmeno l’ombra; di sex, solo sbiaditi ricordi; tuttavia, sì, we know how to write it.

Dunque, hic manebimus optime e ci divertiamo un sacco, come affermò quel centurione di fronte ai galli, con le creste ben alzate, a cui, per solidarietà di genere, si contrapposero le oche, col loro starnazzio che jje tajjò la cresta.

No no, qui né intelligenti, ché è peccato di orgoglio definirsi tali, né artificiali, perché siamo eteronomi per indole e naturali per scelta, e nemmeno paradisi artificiali, perché siamo contro ogni tipo di droga.
Ai posteri, dunque, l’ardua, si spera non Adua, sentenza.


(Questo testo è stato generato a mano da un copy, somewhere, durante un tipico pomeriggio di pioggia d’autunno decimetropolitano, senza foglie né alberi, cioè senza sapere come si sta, da un bar osservando la strada e, con sempre più faticose accomodazioni, il corso imprevedibile di gocce e gocciole su un vetro).