
Cera. E l’apostrofo.
- Pubblicato 9 Febbraio, 2022
Il prode Odisseo, si sa, salvò sé e i suoi marinai, tappando loro le orecchie con la cera, affinché non ascoltassero i canti delle Sirene ammaliatrici, attraversando lo stretto di Scilla e Cariddi.
De compagni incerai senza dimora
Le orecchie di mia mano.
(Omero, Odissea, canto XII, traduzione di Ippolito Pindemonte).
E se aggiungessimo un apostrofo? Ovvero, se a salvare noi, oggi, fosse non la cera ma il c’era, il c’era una volta, il passato, quel che ieri c’era e che oggi non c’è più, ma solo perché non è più ricordato, abbandonati alle sole lusinghe di un “ci sarà” che non c’è ancora e che, in quanto tale, ben avvolti dai canti delle Sirene, possiamo sognare come meglio ci piace.
Ordunque, noi tutti sulla stessa barca, come gli antichi eroi greci, turiamoci come loro le orecchie, ma con i tappi di c’era, di c’era una volta e, duri ai banchi di ciò che è stato, la sua lezione nelle orecchie, resistiamo alle presenti lusinghe delle sirene, transitiamo indenni tra Scilla, colei che dilania, e Cariddi, colei che risucchia, e continuiamo a remare, sordissimi alle profferte superiamo indenni lo stretto, lo stretto necessario, per ritornare indietro, cioè rivoluzionare tutto, nel senso più proprio, revolvere, volgersi indietro, tornare indietro al c’era. Con l’apostrofo. Inc’eriamoci.